L’Italia figura tra i primi dieci paesi nella graduatoria mondiale del Pil (Prodotto Interno Lordo). Nonostante ciò si assiste ad una crescita preoccupante della povertà assoluta e relativa.
Ciò che caratterizza la povertà italiana è l'aspetto territoriale: il divario Nord/Sud è fortissimo. È più radicale che in tutti gli altri paesi dell’Unione europea. Basti pensare che le percentuali di povertà relativa e povertà assoluta al Sud sono numeri multipli rispetto a quelli del Nord.
Molta attenzione merita una nuova categoria di poveri, nuova anche statisticamente. Sono i working poor, traducibile come i poveri al lavoro o meglio i lavoratori poveri, di cui l'Italia ha un record negativo.
Altro preoccupante primato dell’Italia è il record della percentuale di minori poveri più alta d’Europa.
Esaminando i dati della povertà che colpisce i minori di 18 anni, l’Italia ha un 25% di incidenza, cioè un minorenne su quattro vive in condizioni di povertà relativa.
E ancora, l’Italia è il paese dove si registra il più basso tasso di occupazione femminile. Il Belpaese investe la minor quota di ricchezza collettiva in politiche di sostegno alla famiglia e fornitura di servizi per la cura di minori. Unico paese in Europa che celebra il Family day, è però anche quello che destina alle politiche della famiglia 12 euro pro capite.
Ma che sta succedendo in Italia?
Marco Revelli, ordinario di Scienza della politica presso l'Università del Piemonte Orientale ad Alessandria, nel suo saggio "Italia verso la fragilità e l'arretratezza" pubblicato sull'ultimo bimestre di Missione Oggi parla di "sconfitta sociale del lavoro".
Revelli basandosi su un'interessante ricerca promossa dalla Banca europea delle transazioni internazionali dice: "C'è stato un travaso significativo di ricchezza, che all'inizio degli anni '80 andava ai salari, cioè entrava nella busta paga dei lavoratori, che a poco a poco è passata ai profitti." E ancora: "In Italia otto punti di Pil sono passati dai salari alle imprese. Otto punti di Pil sono 120 miliardi di euro che sono passati nelle disponibilità delle imprese mentre a metà degli anni '80 erano nelle disponibilità dei lavoratori".
Le conseguenze sono che nell'ultimo quindicennio i salari sono rimasti fermi. C'è stato un aumento dei profitti a scapito delle buste paga: nel momento in cui i profitti iniziavano a crescere rispetto ai salari, diminuiva del 40% la percentuale dei profitti reinvestiti, cioè quella parte dei guadagni che le imprese investono in impianti, posti di lavoro e soprattutto ricerca e sviluppo. Lo conferma anche l'Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico): l'Italia è il fanalino di coda per la percentuale di Pil investita in ricerca e sviluppo.
Fonte: Missione Oggi/ Marco Revelli